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giovedì 18 novembre 2021

Fallimento: un'arte?



Per il fallimento esiste un'ambiguità di fondo generata dal concetto che fallire sia un successo. Piano un momento: stiamo confondendo la traduzione di un principio proveniente dal mondo anglosassone, ovvero "
to fail" con "to go bankrupt". Poi sull'argomento "fallimento" noi non siamo né negli Stati Uniti né in un altro Paese europeo: siamo in Italia. 

Passare per il fallimento, sentenziato da un tribunale italiano, non è la strada migliore per diventare milionari. Si deve dimenticare ogni sogno americano. Inoltre in Italia, dove c'è una disgrazia, si insinua per tradizione anche la mafia. Non c'è neanche bisogno di andare tanto lontano per studiare le conseguenze di un fallimento giudiziario, che genera comportamenti sleali di ex concorrenti e ex fornitori di un posto, disinteresse delle amministrazioni, sfregi, abbandoni e soprattutto molto dolore negli esecutati. 

Torniamo alla differenze di "to fail" e "to go bankrupt": il primo significa "non avere successo", "mancare un risultato", "fare una prova e non riuscirci"; il secondo "to go bankrupt" vuole dire "fare bancarotta", "essere dichiarati falliti da un tribunale" ma soprattutto vuol dire finire nella mani dei burocrati sia statali che acquisiti, perché i giudici delegati dei tribunali si dotano di uno stuolo di "professionisti" del mondo civile, che ti cuociono a puntino e finché non hanno visto la fine non mollano la presa. Questo per anni e anni. 

Per non parlare poi del fatto che "fare bancarotta" in Italia viene giudicato come "bancarotta fraudolenta", quindi c'è la ferma idea che in un fallimento si fallisca intenzionalmente, per uscirne con le tasche piene di soldi. Invece, se fallisci da persona onesta, sei ancor più penalizzato di un delinquente: non vai in galera ma ti stringono il cappio al collo. Diventi povero, sei tagliato fuori dalla vita d'impresa e "ne esci con le pezze al culo", come mi scrive un'imprenditrice di Empoli, che una decina di anni fa finì sui giornali, ma che non riuscì ad evitare il fallimento e oggi aspetta la morte: una creativa che non consideriamo una "risorsa" e per la nostra società diventata invisibile

L'ìmprenditrice toscana ha invece un nome e un cognome, si chiama Giuseppina Virgili e viene anche citata nel libro di Maria Luisa Busi dal titolo "Brutte notizie - come l'Italia vera è scomparsa dalla tv" (Rizzoli, 2010), libro che ora si trova solo in biblioteca, usato o formato Kindle. Dove vanno a finire in Italia le grida di dolore degli imprenditori falliti e delle imprenditrici fallite? Nessuno le ascolta, perché dei falliti e delle fallite, dei nostri artigiani artisti italiani, non interessa niente a nessuno. L'arte e i loro artisti sono sotterrati da vivi e per sempre nel cimitero dei fallimenti ad opera di abili mani, che di arte non hanno nulla. Questi "professionisti" non producono ricchezza per l'Italia ma sanno bene come riempirsi le tasche con le disgrazie altrui. 


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1 commento:

Anonimo ha detto...

Buongiorno.purtroppo i falliti non interessano a nessuno. Per lo stato siamo rami secchi .non interessiamo nemmeno come voti perché in fondo siamo una minoranza.