Ve lo dico subito: non ci si capisce niente, non esiste comunicazione. Infatti i giuristi, e chi per loro, parlano prima di tutto un linguaggio desueto, come se recitassero da un palco di un teatro seicentesco, con tanto di riccioli linguistici al pari delle loro parrucche, latinismi conosciuti come "brocardi". Poi non esiste cura ma solo forma.
Basti pensare che l'ultima trovata della giustizia è stata di rimpiazzare la parola "fallito" con "debitore assoggettato a liquidazione giudiziale", tanto per allungare il brodo ed edulcorare un'esperienza crudelmente disumanizzante, in cui oltre a subire le conseguenze del debito per anni e anni, il fallito sconta una pena corporale, perché provare dolore ed essere privati della libertà è una pena ulteriore, che i falliti innocenti non meritano di sommare alla disgrazia subita.
Simili modo, come diceva in latino il prete dall'altare, il termine "fallimento" è stato sostituito da "liquidazione giudiziale" e "procedura fallimentare" è diventato "procedura di liquidazione giudiziale". Siamo abituati da tempo a queste scalate lessicali delle parole, che attengono al significante, ovvero a come si scrivono i termini: negli anni "infelice" è diventato "handicappato" poi "disabile" e infine "diversamente abile".
Se è vero che il fenomeno della mutazione delle parole è comune anche alle lingue straniere, per noi italiani - adulatori della burocrazia - l'azione di modifica dei termini usati diventa prioritaria. La presa in giro di questi giochi di parole esiste, perché con la legge 132/2015 detta "legge Renzi" si è dato il via alla vendita all'asta dei beni dei falliti a prezzo vile, una vergogna e un ulteriore sfregio per il fallito, che non viene tutelato e continua così a rimanere debitore per tanti altri anni della sua vita, forse anche fino alla sua morte, specie se il bene è oggetto di esecuzione immobiliare: voi non aspettereste il prezzo vile prima di comprare dalle disgrazie altrui?
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