La legge fascista sul fallimento non può essere emendata, può solo essere cancellata e riscritta in termini democratici e di rispetto della persona. In questi dieci anni dall'istanza di fallimento dell'azienda artigiana della mia famiglia io mi sento una suddita di un mondo maschilista, che non conoscevo. Sapevo di vivere in una società dominata dai burocrati, ma non mi ero resa conto fino a che punto di sopraffazione si potessero spingere.
Gli strenui difensori della democrazia vogliono far togliere i fasci littori dalle opere architettoniche fasciste, errore gravissimo per la storia dell'arte, mentre non si curano di far cancellare leggi fasciste desuete, a danno della collettività, del tessuto economico e sociale. Ritorna il jingle della forma, della nostra propensione tutta italiana alla cura degli ideali, di ciò che non ci tocca ma ci disturba la vista, perché siamo profondamente individualisti e teniamo ai nostri soldi più dei padroni che abbiamo combattuto.
Quindi quando si parla di fallimento, il primo pensiero va alle nostre tasche. Non ci sono altri pensieri: per il territorio, per la perdita delle aziende, per il bene collettivo e per il dolore che si produce in un fallito. Quindi a chi potrebbe interessare una soluzione diversa di come viene trattato ora il fallimento? Neanche gli stessi falliti sono uniti per la lotta alle ingiustizie, in cui si finisce già per lo stesso fatto che si risponde ad una legge fascista, che ti porta a chinare il capo senza possibilità di replica.
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