Il fallito vive la sua esperienza in un carcere senza sbarre finché non si chiude il fallimento, che può durare anni e anni. Sei in una condizione "freeze". Non puoi più fare nulla. Come ti muovi, ti prendono quel che guadagni. Sorte peggiore per chi era socio fuoriuscito dall'azienda, perché passa da fidejussore. Se non paghi il debito, sarai perseguitato per tutta la vita: quinto dello stipendio (e della pensione???) più pignoramento degli spicci nel conto corrente. Ti prendono da milionario. Uno Stato, che vive sulle piccole aziende artigiane e commerciali, è settato su regole da multinazionali. Se io ero socia in azienda e vivevo del lavoro della fabbrica artigiana con un'incidenza altissima del costo della manodopera, come posso permettermi ora di fare anche da fidejussore? Questo doppio ruolo socio e fidejussore in una piccola azienda artigiana non può coesistere.
Infine, sempre per rimanere nell'ambito delle aziende artigiane, non capisco dove stia la convenienza economica nello svendere i beni del fallito e nel non generare un ritorno per i creditori in un tempo lunghissimo. Forse il fascicolo della nostra azienda artigiana fallita è un caso limite, che fa da contorno a grandi operazioni fallimentari, in cui tutti i professionisti del tribunale guadagnano molto di più: fallimenti di industrie, beni di pregio all'asta, immobili di valore di proprietari finiti in disgrazia? In questi casi di fallimenti sostanziosi, qualcosa arriva nelle tasche dei creditori? Io mi vergognerei a fare il lavoro di burocrate su per i tribunali fallimentari. Dovrebbe esistere l'obiezione di coscienza.
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